«Sulla questione aree idonee ad ospitare il Deposito nazionale delle scorie nucleari, ancora una volta si è fatto il solito pasticcio all’italiana. È assurdo prevedere la possibilità di autocandidature anche da parte dei Comuni non compresi nella Cnai.»
Così Legambiente commenta quanto prevede la Carta nazionale delle aree idonee per il deposito nazionale delle scorie radioattive (Cnai), pubblicata in questi giorni dal MASE e che, oltre a indicare i 51 siti idonei in 6 regioni della Penisola, stando al recente decreto legge energia, include anche la possibilità di autocandidature, entro 30 giorni di tempo dalla pubblicazione della Carta, di quei comuni le cui aree sono state ritenute non idonee fino ad oggi. L’associazione ambientalista giudica totalmente sbagliata e controproducente la possibilità di questo tipo di autocandidatura, perché lascia prevedere un percorso poco rigoroso e poco attento alla sicurezza dei cittadini, e che finirà per allungare inevitabilmente i tempi per l’individuazione del Deposito, che invece rappresenta una vera urgenza per la sicurezza di tutto il Paese.
«Ma perché mai – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – i territori di questi Comuni, se prima non soddisfacevano gli stringenti requisiti richiesti in fase di valutazione, ora invece potrebbero essere ritenuti “idonei” ad ospitare il Deposito nazionale delle scorie nucleari? Si è imboccato un incomprensibile “percorso parallelo” a quello seguito finora, solo per dare modo ai Comuni scartati di ritornare in pista con proprie autocandidature. È noto, ad esempio, che il Sindaco del Comune di Trino, in Piemonte, fin dall’inizio non abbia mai nascosto il suo interesse ad avere sul proprio territorio il Deposito Nazionale, nonostante sono ben sei i criteri di esclusione che avevano determinato la sua esclusione. Per quale motivo ora potrebbe, invece, proporsi ufficialmente per essere scelto?»
Alla luce di ciò, Legambiente risponde così al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin indirizzandogli al tempo stesso un appello. «Il deposito serve, è urgente – continua Stefano Ciafani – si è perso fin già troppo tempo, e va fatto per ospitare i rifiuti a bassa e media attività. Per quelli ad alta attività, visto la trascurabile quantità prodotta fortunatamente in Italia nella sua breve storia nucleare, si deve lavorare a livello comunitario, come previsto dalla direttiva UE, per individuare un deposito geologico idoneo e il più possibile sicuro, che ospiti quei rifiuti più radioattivi, prodotti prevalentemente da quei Paesi che negli ultimi settant’anni hanno prodotto ingenti quantità di questa tipologia di rifiuti, senza mai trovare una soluzione con cui poter chiudere il circolo, ormai vizioso, intrapreso.»
«È fondamentale – aggiunge Andrea Minutolo, responsabile scientifico nazionale di Legambiente – attenersi rigorosamente al percorso messo in campo con la Carta nazionale, evitando fughe in avanti che non hanno senso e che comprometterebbero la credibilità di quanto fatto finora, esponendo ulteriormente il Paese a lungaggine dei tempi e a rischi inutili. Il Deposito Unico per i materiali radioattivi nasce dal fatto che l’Italia, pur non utilizzando più le centrali atomiche, ha accumulato ingenti quantità di questi materiali, prodotti nel secolo scorso e ancora oggi con lo smantellamento e la bonifica dei siti nucleari, e altre, in minor quantità, che vengono prodotte tuttora per scopi medici o industriali. Ci sono ancora rifiuti radioattivi attualmente stoccati e dislocati su tutto il territorio nazionale in decine di siti assolutamente inidonei, con gravi e ingiustificati rischi per tutti.»
Per individuare un sito in Italia dove questo deposito possa comportare i minori rischi possibili, il decreto legislativo 31 del 2010 prevedeva una procedura di selezione sulla base di criteri di esclusione fissati dalle Autorità di controllo nazionali ed internazionali, e sulla base di questa normativa Sogin ha definito, attraverso la stesura della CNAPI, 67 aree ritenute “potenzialmente idonee” sulle quali erano state presentate le osservazioni di Legambiente, dei cittadini e dei vari enti locali nel corso di un lungo, seppur tortuoso, percorso partecipativo. Al termine di questa fase di ascolto e di osservazioni, è stata definita quindi la CNAI, in cui sono rimaste 51 aree ritenute idonee per ospitare il deposito unico nazionale. Dalla data di pubblicazione della CNAI, sono partiti infine 30 giorni per permettere ai Comuni con aree dichiarate “idonee” di autocandidarsi per la realizzazione del deposito.
Legambiente Sardegna è fortemente critica riguardo la procedura seguita per l’identificazione delle aree idonee dell’Isola, a causa della superficialità dell’analisi svolta nell’identificazione che ha portato a una mancata valutazione o a una valutazione non corretta di importanti elementi di esclusione indicati da ISPRA.
Gli strumenti utilizzati per rilevare la pericolosità idraulica e geomorfologica considerano al massimo un tempo di ritorno di 500 anni. Il tempo di esercizio della struttura è previsto in 300 anni, questo vuol dire che un evento di quel tipo ha la probabilità del 60% di accadere nell’arco del periodo di esercizio del deposito. Perciò l’analisi della pericolosità idraulica e geomorfologica dovrebbe essere fatta analizzando tempi di ritorno molto superiori, in modo da considerare anche eventi che abbiano una probabilità molto più remota di accadere. Non risulta sia stata svolta una analisi dei suddetti siti sotto l’aspetto della franosità.
Secondo la Guida Tecnica n. 29 redatta da ISPRA, nell’identificazione dei siti deve essere verificata la “rispondenza a fronte degli eventi naturali ed antropici ipotizzabili in relazione alle caratteristiche di sito nonché le verifiche in merito all’impatto radiologico in condizioni normali ed incidentali sulla popolazione e sull’ambiente”. Eppure manca completamente un’analisi, anche di carattere generale, del rischio da incidente, attentato od altro.
Nonostante sia dichiarato e richiesto nella Guida Tecnica n.29 di ISPRA, non si è tenuto conto dell’interrelazione degli elementi paesaggistici, naturalistici, antropici distribuiti sul territorio interessato dai siti.
«Il Deposito Nazionale va realizzato, ma le aree individuate sono situate in una zona il cui inestimabile valore storico, paesaggistico e naturalistico è dato dalla presenza di una fitta tessitura di beni culturali e di aree naturali protette strettamente interconnesse tra loro – spiega Annalisa Colombu, presidente di Legambiente Sardegna -. Il Deposito Nazionale prevede la presenza di numerosi edifici completamente fuori terra, alti oltre i 20 m, con la volumetria e la struttura di un vero e proprio sito industriale di notevole estensione (150 ettari), la cui presenza distruggerebbe il valore di questo tessuto, e la maggior parte delle aree scelte dista meno di 3 chilometri da più centri abitati.»
«Le 8 aree individuate in Sardegna non sono idonee ad ospitare il Deposito Nazionale innanzitutto in base ai criteri definiti nella Guida Tecnica n. 29 di ISPRA – aggiunge Giorgio Querzoli, responsabile scientifico di Legambiente Sardegna -. Non è stata effettuata una adeguata verifica della pericolosità idraulica, essendo stati considerati eventi con un tempo di ritorno di solo 50 anni, molto più breve della vita utile del Deposito che è di 300 anni. Inoltre, collocare il Deposito Nazionale in Sardegna comporta gravi problemi relativi alla logistica e mette in crisi il porto impiegato nel trasferimento oltre che il sistema dei trasporti regionali, a causa di un sistema viario e ferroviario insufficiente a sopportare il flusso costante di rifiuti che arriverebbero dal continente.»
Nella foto di copertina Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente