Il sistema delle imprese sarde, stremato dal lockdown della scorsa primavera, rischia di essere travolto dalla sempre più probabile nuova serrata generalizzata allo studio del Governo. Lo attesta un dossier della Cna Sardegna che – analizzando il risultato di un’indagine condotta dall’Istat presso un campione di imprese regionali con più di tre addetti nei settori industria e costruzioni, commercio e servizi in riferimento all’impatto del primo lockdown primaverile – evidenzia la grande vulnerabilità del tessuto economico isolano, impreparato alla prospettiva sempre più concreta di ulteriori restrizioni.
Già prima della recrudescenza autunnale della pandemia ben il 48,8% delle imprese sarde con più di tre addetti (un’impresa su due) aveva indicato un serio rischio di tenuta della propria attività e soltanto l’11,4% aveva manifestato una certa fiducia per il prosieguo dell’anno. Oltre metà delle imprese aveva inoltre denunciato gravi problemi di liquidità per far fronte alle spese e un quinto aveva addirittura dichiarato di non essere in grado di adeguare i propri spazi di lavoro nell’ottica di una maggiore sicurezza sanitaria. Sotto il profilo occupazionale, inoltre, ben il 18% delle imprese sarde con più di tre addetti aveva dichiarato di aver rinviato le assunzioni previste per il 2020 e il 7,6% aveva indicato di aver ridotto il personale a tempo determinato o tagliato i collaboratori esterni.
«La nostra paura è che un nuovo lockdown, seppure meno severo rispetto a quello di aprile, possa avere effetti devastanti sulle imprese sarde – spiegano Pierpaolo Piras e Francesco Porcu, presidente e segretario regionale della Cna Sardegna -. Se a livello europeo la Francia è il primo paese ad aver riattivato un lockdown generalizzato, tutto lascia pensare che, vista la curva epidemica in rapida ascesa, anche il governo italiano interverrà con misure via via più stringenti. Il rischio concreto – evidenziano i vertici della Cna sarda – è quello di veder scomparire un sempre maggior numero di attività economiche, e non solo nei settori più esposti, come quello della ristorazione, degli eventi, del fitness e del ricettivo. Gli effetti sull’occupazione, e quindi sui redditi delle famiglie, rischiano di essere molto accentuati e il calo della domanda aggregata potrebbe protrarsi a lungo, compromettendo la ripresa dell’economia regionale nella fase successiva all’emergenza sanitaria. Per questo – sostengono Pierpaolo Piras e Francesco Porcu – è necessario che, in Sardegna più che altrove, si intervenga per supportare il mondo delle imprese, preparando al meglio la fase successiva, attraverso una progettualità di ampio raggio finanziata anche tramite risorse comunitarie, per permettere all’economia regionale di ripartire rapidamente in tutti i settori: dalle costruzioni, al settore turistico, dall’agroalimentare a quello delle palestre, della ristorazione e dei trasporti.»
Il dossier della Cna
Per comprendere quanto il sistema delle imprese sarde sia attrezzato per resistere ad una nuova serie di serrate il dossier elaborato dall’associazione artigiana analizza un’indagine riferita all’impatto del primo lockdown primaverile condotta dall’Istat presso un campione di imprese regionali con più di tre addetti nei settori industria e costruzioni, commercio e servizi. Tale indagine ha permesso di misurare la resilienza del sistema economico regionale in un contesto comparato nazionale.
In Sardegna le imprese con più di tre addetti sono circa 23.500 e impiegano quasi 188 mila occupati, pari a circa il 63% del totale. Come detto, ben il 48,8% di queste, già prima della nuova emergenza autunnale, aveva indicato rischi operativi di sostenibilità della propria attività a seguito della crisi sanitaria: una percentuale sensibilmente maggiore della media nazionale (38%) e anche superiore al dato medio delle regioni del Mezzogiorno (43,1%). Si tratta di una prima chiara indicazione di forte vulnerabilità, aggravata dal fatto che nessuna regione italiana ha fatto registrare una quota così alta di imprese in difficoltà. A sottolineare il clima di sfiducia va aggiunto che a giugno solo l’11,4% delle imprese sarde non si aspettava effetti particolari sull’attività, aspettandosi di poter proseguire più o meno nella normalità (12,6% nazionale e 12,8% Mezzogiorno).
Il dossier della Cna sarda evidenzia inoltre come il principale problema delle imprese sarde sia quello della carenza di liquidità per far fronte alle spese (correnti, spese per fornitori, debiti, ecc.). Lo ha indicato il 56% delle imprese sarde contro il 51% della media nazionale. Non si tratta, quindi, solo di un problema di ricavi mancati: ad essere messi in discussione sono i fondamentali economici su cui si basa la tenuta dell’azienda. Un problema, questo della carenza di liquidità, che le imprese soffrono in Sardegna più che altrove; solo in Umbria (57,8%) e in Calabria (57,4%), infatti, la percentuale di chi lo indica risulta superiore a quella dell’Isola.
Tra l’altro, in uno scenario che presumibilmente richiederà sempre maggiori sforzi per l’adeguamento degli spazi di lavoro in ottica di una maggiore sicurezza sanitaria, quasi un quinto delle imprese sarde indica di non essere in grado di agire in tal senso, con possibili conseguenze in termini di riduzione della capacità produttiva (turni ridotti o dipendenti forzosamente in cassa integrazione) o persino l’impossibilità di proseguire l’attività economica. Hanno risposto in tal senso il 19,1% delle imprese (14,4% la media nazionale, 13,1% quella del Mezzogiorno), la quota in assoluto maggiore tra tutte le regioni italiane.
La situazione rischia quindi di precipitare con conseguenze drammatiche che rischiano di abbattersi sull’occupazione, soprattutto quando verranno meno gli strumenti di legge per la tutela dei posti di lavoro, cioè, cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, misure prorogate al 31 gennaio 2021 nel decreto Ristori. Intanto il 18% delle imprese sarde con più di tre addetti ha già rinviato le assunzioni previste per il 2020, contro il 12,2% nazionale e il 13% delle regioni del Mezzogiorno (si tratta del secondo dato peggiore tra tutte le regioni), mentre il 7,6% ha indicato di aver ridotto il personale a tempo determinato o tagliato i collaboratori esterni, i cui contratti non sono stati prorogati, anche in questo caso uno dei dati peggiori tra le regioni italiane.