E’ morto oggi, a Cagliari, il designer Stefano Asili. Aveva 58 anni. Lascia la moglie e quattro figli. La cerimonia funebre si terrà lunedì 3 maggio, alle 17.00, nel Cimitero di San Michele, a Cagliari.
Per ricordarlo, pubblichiamo il messaggio di pubblico ringraziamento e di auguri rivoltogli il 26 settembre dello scorso anno, dall’antropologa Paola Atzeni, in occasione della cerimonia ufficiale di apposizione della sua firma nell’opera da lui realizzata, denominata “Sindone di Serbariu”, nella sala della Lampisteria del Museo del Carbone, a Carbonia.
Stefano Asili è un designer, progettista e artista, assai originale e creativo. Il 26 settembre nella Grande Miniera di Serbariu a Carbonia, alla presenza della sindaca Paola Massidda, dell’assessora alla Cultura Sabrina Sabiu, della Giunta comunale, di tanti amici e colleghi, egli ha firmato una grande tela, dove nel 2006 grazie a lui sono state impresse laboriose mani minerarie. Egli ha voluto intitolarla “Sindone di Serbariu”.
Il titolo rende solenne la tela con un religioso riferimento cristiano ai mortali patimenti corporei, a partire dalle mani per dare significato ai corpi che hanno lavorato in miniera portando segni di patimenti fino a morirne, non pochi, o alla lunga per silicosi più o meno degenerate, o all’improvviso per vari incidenti dovuti per lo più a ragioni tecniche e di cui, invece, erano spesso ingiustamente accusati i lavoratori.
La sindone, con il suo titolo evocativo, mette in evidenza emblematicamente le mani, ma in realtà dà centralità all’intero corpo di chi ha lavorato in miniera. Ciò estende il senso del lavoro espositivo fatto insieme nella Sezione Antropologica e di cui voglio in primo luogo ringraziarlo pubblicamente, raccontando un episodio che lo riguarda.
Nel 2008 si svolse in Toscana un importante convegno su La parola scritta nel museo. Lingua, accesso, democrazia. Alcuni importanti relatori furono presenti ad una successiva iniziativa sulla cultura mineraria, a cui partecipai presentando in quella regione la Sezione Antropologica di Serbariu. Ci furono apprezzamenti caldi e vivacissimi, espressi dal pubblico mentre parlavo. Un sorprendente e quasi imbarazzante successo. Poi, fra gli interventi, fu assai particolare quello di Claudio Rosati che si riferì ripetutamente all’esperienza museale fatta a Serbariu.
Egli era allora uno studioso di museologia e un colto funzionario pubblico. Ora è docente di antropologia museale e comunicazione dei Beni Culturali all’Università di Firenze ed è membro dell’International Council of Museum, fondatore della Società Italiana per la museografia e i beni demo-etno-antropologici. Nel 2016 ha scritto un importante testo di museologia e di museografia, Amico museo.
Dell’apprezzamento sul nostro lavoro, che egli espresse ripetutamente nel suo intervento, si trova una buona traccia nella pubblicazione del 2019 che ha lo stesso titolo del precedente convegno. Ricordato l’impegno di Primo Levi per la parola chiara nella comunicazione espositiva per preparare il Memoriale di Aushwitz, ribadito che la parola concorre con altri elementi a dar forma al museo, egli citò modi artistici contigui alla comunicazione nei musei, come quello dell’artista Jenny Holtzer che proietta parole luminose e idee negli spazi pubblici. In continuità, egli citò il museo del carbone di Carbonia e spiegò il ruolo-guida che la parola svolgeva nella Sezione Antropologica. Riferì i titoli in cui le parole offrivano specialmente classificazioni, tassonomie interpretative. Citò l’uso del sardo per accrescere la densità di senso, la ricchezza semantica di ciò che si vuole comunicare. Indicò proprio Le docce. I corpi presenti. I corpi assenti, come spazio particolare offerto a una lettura meno immediata e ricca di senso. Infine, affermò che, nell’impianto grafico, il lettering, cioè il rapporto fra le dimensioni dei caratteri, contribuiva a dare una gerarchia logica alle frasi.
Il lavoro museale di Stefano Asili è stato evidentemente cruciale affinché l’onestà della parola, così come la sua rarefazione nel corridoio-docce, desse forma alla Sezione Antropologica. Infatti, Claudio Rosati citò anche le esposizioni di immagini senza didascalie in cui si affidava l’esperienza alla sola percezione estetica. Parole chiare e rarefatte sono, di fatto, anche nel titolo “Sindone di Serbariu”, che non commenterò analiticamente lasciandone la ricchezza di senso all’intima interpretazione culturale di ogni persona che voglia vederla. Mi limiterò, invece, agli espliciti rimandi che riguardano i tanti patimenti incarnati di chi ha lavorato in miniera, che le mani evocano, per esprimere due auguri a Stefano Asili.
Cosa mi dicono le mani di miniera? Al mio sguardo, le mani di miniera raccolgono e configurano nei paesaggi lavorativi e urbani del sottosuolo importanti fatti antropologici. Si tratta di fatti antropologici densamente dotati di senso. Riguardano i modi attivi di distinguersi e di caratterizzarsi umanamente, a livello individuale e collettivo, trasformandosi e facendosi persone e gruppi culturalmente di valore nel fare cose, spazi, tempi. I fatti antropologici superano quelli antropici che riguardano i segni e i modi attivi della presenza umana, e che osservano i cambiamenti delle cose, dello spazio e del tempo. Fatti certo importanti, ma che non prendono in conto e non mettono in luce l’ampia esperienza umana della trasformazione e del potenziamento di sé, delle proprie capacità e del proprio valore culturale. Gli aspetti antropologici, infatti, riguardano specialmente i modi validanti di trasformazione di sé, individuali e collettivi. Essi vanno oltre la presenza che pure gli studi antropologici assumono, analizzano, interpretano.
Riguardano un ‘di più’, un plus che le laboriose mani minerarie, documentate e presentificate da Stefano Asili, colgono, espongono. esprimono. Si tratta, infatti, di mani che dicono non solo la presenza umana in miniera, ma indicano in più che con le mani, con il lavoro manuale, chi lavorava in miniera umanizzava se stessa, mentre con il proprio saper fare trasformava i rischiosi spazi e tempi del lavoro minerario, rendendoli sicuri e liberati dai pericoli anche mortali e, pertanto, diventati umanizzati e umanamente fruibili, fatti umani.
Il lavoro dei ‘maestri’ minatori nel sottosuolo, che formavano culturalmente gli altri minatori meno accorti o inesperti, era pertanto l’esercizio di un saper fare e specialmente di un saper vivere. I ‘bravi minatori’ erano maestri di lavoro e di vita. Le laboriose mani minerarie della “Sindone di Serbariu” sono, in primo luogo, le loro laboriose mani che producevano non solo minerali, ma soprattutto spazi e tempi di vita.
Dal punto di vista dello spazio possiamo pertanto vedere una doppia umanizzazione congiunta, realizzata nel lavoro dei minatori del sottosuolo: dello spazio da letale reso vitale, e inoltre di sé stessi umanizzati attraverso i saper fare e i saper vivere che li facevano diventare ‘bravi minatori’, socialmente riconosciuti e apprezzati, in una severa gerarchia delle competenze e dei valori lavorativi che assicuravano la vita.
Tale profonda umanizzazione a doppio livello congiunto, umano e spaziale, costituisce il preziosissimo sottosuolo culturale originale della città. Merita di essere portato in superficie e alla luce ulteriormente, per essere congiunto a nuovi modi di saper fare e di saper vivere innovativi, valorizzanti, caratterizzanti ora la città con configurazioni culturali inedite. Tale speciale umanizzazione merita, soprattutto, di esser riconosciuta come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Infatti, non dappertutto, nel mondo, i minatori hanno manifestato tale sapienza nel saper fare e nel saper vivere. Non ovunque hanno dato tale senso di modernità per il diritto alla vita, prodotto anche autonomamente e mentre lavoravano: certo senza vincere la prospettiva della silicosi e delle sue degenerazioni, ma prendendo in mano i rischi letali e risolvendoli nel creare, continuamente e quotidianamente, sicurezze per sé e per gli altri con le proprie mani.
Non dobbiamo sottovalutare ora, fra l’altro, che la doppia dimensione della sicurezza in miniera, individuale e collettiva congiuntamente, ha una sua attualità. In miniera la cura di sé nel dare soluzione ai pericoli era anche una cura degli altri. Per esempio, osservare con attenzione e disgaggiare, cioè disancorare le rocce instabili, era anche una rimozione del pericolo per sé e per altri perché un incidente individuale nel sottosuolo poteva avere effetti collettivi, in questo e in molti altri casi. Per certi versi e con evidenti differenze, tale doppia valenza nella dimensione individuale-collettiva delle produzioni di sicurezze che riguarda il passato, in un certo senso incrocia il valore delle attuali pratiche anti-coronavirus in cui la cura di sé è, congiuntamente ed evidentemente, anche cura degli altri.
Stefano ha donato senso e valore a quelle mani salvifiche, umanizzanti luoghi e persone. Ha mostrato di saper restituire a chi ha lavorato in miniera la doppia valenza di creatori di luoghi vivibili e di sé, come produttori non solo di minerale ma specialmente di luoghi di vita. Ha restituito così anche ai paesaggi minerari del sottosuolo la loro doppia dimensione culturale come luoghi antropici, di presenza umana, e specialmente come luoghi antropologici: luoghi e paesaggi speciali del farsi valorosamente umani proprio creando spazi sicuri per lavorare e vivere.
Stefano Asili, a mio avviso, ha ben raccolto il senso di un intenso dialogo operativo avvenuto a Carbonia specialmente fra ingegneri, architetti, antropologi, grazie all’impegno di alto profilo culturale e politico del sindaco Salvatore Cherchi che promosse e favorì quel dialogo. Un dialogo di evidente importanza che rischia ora per varie ragioni di appannarsi o di indebolirsi – nonostante il codice Urbani stabilisca la specifica dimensione antropologica del paesaggio – se non verrà adeguatamente rinvigorito,
assicurando la presenza dell’analisi, dell’interpretazione, della dimensione antropologica come assolutamente ineludibile e imprescindibile.
Il primo augurio a Stefano Asili, pertanto, è che le sue artistiche mani, con le laboriose mani minerarie assicuranti paesaggi vitali nel sottosuolo, rinsaldino il dialogo fra gli studi paesaggistici-territorialistici e gli studi antropologici sul paesaggio. Nell’Università di Sassari abbiamo il primo antropologo cagliaritano che si è occupato in Italia di antropologia del paesaggio e ne ha scritto un libro.
Nell’Università di Cagliari abbiamo un antropologo che ha lavorato anche qui su storie di vita e processi lavorativi. Entrambi possono ora arricchire le nostre conoscenze sui paesaggi minerari, industriali e urbani.
Le laboriose mani minerarie celebrate da Stefano Asili a Serbariu si sollevano, a mio avviso, unendo quelle dei minatori con quelle delle cernitrici, esposte dal canto loro a diversi rischi di salute anche letali, e poi con quelle di chi ha lavorato non solo a Serbariu, ma in tutte le miniere e in tutte le cave, nell’isola e non solo. Assumono un valore che tende a globalizzarsi con un messaggio che afferma, anche nel presente, l’eccellenza culturale di chi sapeva assicurare la produzione di modi per poter vivere trasformando in securitas le insicurezze e i rischi esistenziali. Tendono, infatti, a estendersi oltre la nostra città e il nostro territorio come mani protese, come mani tese verso l’altrove e anche verso il futuro.
Un’ultima considerazione antropologica che scaturisce dalla visione delle lavorative mani minerarie esposte da Stefano Asili riguarda, infatti, il tempo: il fatto che quelle mani producevano, oltre che il sé e lo spazio, anche il tempo di lavoro e di vita. Rimuovere i pericoli, e specialmente governare il tempo delle micce nell’accensione manuale, che non a caso si chiamava su tempus, era produrre un tempo di vita non di poco momento, ma di futuri possibili. I minatori, specialmente delle miniere carbonifere, non a caso, lottarono lungamente e tenacemente insieme ad altri per eliminare i cottimi Bedaux. Quei cottimi, limitando di fatto i tempi da dedicare all’attenzione verso i pericoli, non solo bestializzavano la persona umana ridotta a ‘bestia lavorante’, come dicevano molti minatori, ma in tal modo indebolivano e de-valorizzavano la stessa produzione di sicurezze di vita nell’attività estrattiva con conseguenze drammatiche.
Produrre tempi futuri di lavoro e di vita, che è stato uno storico obiettivo democratico, è un cruciale obiettivo democratico del nostro presente. Osserviamo attentamente le lavorative mani minerarie. Sono per così dire ‘tetravalenti’, operanti in quattro livelli: valide per produrre il sé autonomo dei lavoratori come persone di valore nel corso delle loro trasformative e creative esperienze culturali di saper fare e di saper vivere, produttrici di spazi e di tempi lavorativi vitali, estrattrici di minerali. Sono, a ben vedere, mani del passato che mettono mani nel presente.
Le laboriose mani minerarie che Stefano Asili ci dona sono toccanti e toccano l’oggi. Invitano anche a darci su tempus di attenzione e di soluzione vitale nei rischi della città e del territorio, nella nostra non facile contemporaneità. Invitano ora ciascuno a fai su tempus di vita per sé e per gli altri in modi differenti da quelli di miniera, ma parimenti efficaci per sicurezze di vita, non solo contro il coronavirus, ma a partire dalle penurie di lavoro e di cibo per giungere agli inquinamenti e ai rischi ambientali. Sono mani anche simboliche, dei revenants ritornanti dal passato che ora presenziano, spingendo ad agire ponderatamente per creare tempi di futuro democraticamente condivisibili e condivisi nell’oggi.
Il secondo augurio per Stefano Asili, pertanto, è che le sue mani artisticamente creative, unendosi con quelle vitalmente creative di chi ha lavorato nelle miniere, servano ora specialmente alle culture politiche democratiche. Servano alle culture democratiche che vogliano rigenerare vitalmente e durevolmente i luoghi e i tempi. Servano per produrre nuovi futuri vitali condivisi democraticamente, a partire proprio dal museo di Serbariu che va preso in cura nuovamente e con un forte slancio scientifico e culturale, per caratterizzare Carbonia come città culturalmente vitale che vuole vivere in nuovi modi e sa produrre politicamente una innovativa vita durevole, democraticamente condivisa.
Ciò richiede, fra l’altro, che venga assunta la centralità antropologica, che Stefano Asili ha saputo esprimere, e che venga situata nell’attuale e diffusa condizione di rischi esistenziali, incombenti nella città e nel territorio, partendo dai patimenti angosciosi dei giovani e in particolare delle donne.
Ciò esige che il voler vivere di ogni persona sia innestato sapientemente sulle abilità di saper fare e di saper vivere della cultura storico-antropologica della città e del territorio con nuove configurazioni culturali di insicurezza e insieme di voglia di riscatto e di eguaglianze, con efficaci capacità di dilatarne il senso nel presente come nuova produzione culturale del vitale, o di voglia di vivere contro inaccettabili limitazioni, o di diritto alla vita in vari modi negato: un senso nuovo del vitale che deve essere individualmente e collettivamente reso possibile e affermato fattualmente nella nostra contemporaneità fragile e insicura.
Ciò domanda che il patrimonio del valore culturale vitale della città e del territorio, il suo originale e caratteristico saper fare che era anche uno storico saper vivere, diventi e sia espresso ora in nuove ma coerenti configurazioni di esperienze di cura del vitale, dense di senso attuale. Tali configurazioni devono riguardare, seguendo appunto il senso delle laboriose mani minerarie, la cura e la produzione di nuovi modi di poter vivere e di saper vivere. Devono emergere nuove possibilità, creativamente inventate in vari ambiti del presente, che esprimono capacità – imprenditoriali, scientifiche, artistiche – capaci di produrre senso per futuri vitali. Tali creazioni devono essere e devono apparire cruciali, per la loro densità culturale, non solo nel contesto nazionale ed europeo, ma specialmente globale e specialmente nella globale antropologia del rischio. Si può fare, si può riuscire con un percorso originale di cui le forze politiche democratiche vogliano essere determinanti promotrici.
Un affettuoso grazie e un doppio augurio a Stefano Asili, dunque, e un augurio anche per tutti noi.
Paola Atzeni