Il 10 maggio 2020 ricorre il secondo anniversario della scomparsa del professor Manlio Brigaglia. In questi due anni le comunità alle quali era più legato – Sassari in primo luogo, dove aveva trascorso tutta la vita, Tempio e Arzachena, dove affondava le radici la sua famiglia, Santa Teresa, dove trascorreva le vacanze con la moglie – si sono impegnate nel rievocare e fare onore a una personalità così ricca e sfaccettata.
E altre manifestazioni sono in programma: è solo rimandata causa epidemia la presentazione agli studenti del liceo di Sassari “Azuni” della seconda edizione di un originale libretto di istruzioni per la maturità che aveva regalato a suo tempo ai suoi allievi; le istituzioni culturali, dal canto loro, dovranno approfondire in appositi convegni i risvolti delle sue attività fondamentali: di storico, di giornalista, di “facitore di libri” come amava chiamarsi.
“Tottus in Pari” contribuisce a questo lavoro di rievocazione e di approfondimento pubblicando gli interventi di Salvatore Tola e di Paolo Pulina, che del professore sono stati allievi (il primo fuori dalla scuola, il secondo proprio all’“Azuni”, per tre anni); e il testo della bella intervista televisiva intitolata “Ottanta anni di storie” che il giornalista della Rai Tonino Oppes gli fece all’ottantesimo compleanno (2009).
Riportiamo la trascrizione dell’intervista televisiva concessa da Manlio Brigaglia al giornalista Tonino Oppes (RAI) in occasione del suo 80° compleanno.
Prof. Manlio Brigaglia, cominciamo questa nostra chiacchierata partendo dal suo compleanno festeggiato proprio l’altro ieri. Un bel traguardo, 80 anni sempre vissuti in prima linea, posso chiederle come li ha festeggiati?
«Con gli amici di sempre, qui in questo studio dove ci troviamo ora, a gustare un goccio di vino.»
Ci sarà stata pure la torta, immagino?
«Beh, sì. Pure grande, proporzionata all’età, ma senza candeline. Giusto perché pensavano che non avessi la forza per soffiare.»
Vediamo di ripercorrere qualche tappa del suo cammino. Lei è nato a Tempio, dopo cinque anni il trasferimento a Sassari, Università a Cagliari. Le chiedo se esiste anche per lei il luogo dell’anima e se coincide con quello in cui si nasce?
«Il luogo dell’infanzia per me è Arzachena che era il paese di mia madre, un paese piccolo e molto civile. Mi ero proprio affezionato tanto che avevo desiderato di essere sepolto lì, ma troppe cose sono cambiate negli ultimi anni con l’avvento del turismo che ha trasformato tutta la zona in specie di Fort Alamo. No, ora non è più il luogo dell’anima e io sono un personaggio in cerca di loculo.»
Il suo rapporto con Sassari: è la sua città a tutti gli effetti…
«Ormai ci vivo da 75 anni. Mi sono integrato, anche se i sassaresi hanno l’abitudine di considerare unu accudiddu chi arriva da fuori come se venga a rubare qualcosa.»
Lei è stato precoce in tutto, studente modello, Maturità prima degli altri, Laurea a 19 anni, compagno di scuola alle Medie di Francesco Cossiga.
«Compagni di banco in prima media, ma non per molto tempo perché Francesco si ammalò di orecchioni. Io andavo a trovarlo a casa per portargli i compiti così mi ha contagiato la malattia. Quello è il primo regalo che mi ha fatto Francesco Cossiga.»
Chi era il più bravo?
«C’è una battuta che ci facciamo sempre. Io ero bravissimo, ma lui era più bravissimo di me.»
Università a Cagliari, come è stato l’incontro con la città?
«Drammatico, anche se magari all’inizio non ci si rendeva conto. Io sono arrivato a Cagliari nel novembre del 1944. C’era la guerra nel resto d’Europa e la città era stata distrutta; ovunque c’erano macerie e cumuli di polvere bianca che quando si sollevava il vento si trasformavano in terribili turbini come di cipria. Ecco, poi ricordo che non c’erano vetri in nessun posto. Io, per un anno, ho vissuto alle Missioni, con Paolo Dettori, che è stato presidente della Regione, e Nino Brianda, che è stato sindaco di Sassari, in tre in una stanza, priva di vetri.»
Allora sarà anche per questo che ha avuto fretta di laurearsi. Ecco la laurea arriva addirittura a 19 anni e poi il primo insegnamento…
«Sì, a Pozzomaggiore, che è il tuo paese che ricordo con grande piacere. Intanto perché i ragazzi, che frequentavano quella scuola privata aperta dal mitico parroco di Pozzomaggiore don Angelico Fadda, erano tutti poverissimi ma avevano tanta voglia di studiare perché sapevano che solo attraverso lo studio potevano avere occasioni di riscatto. C’erano anche ragazzi mutilati, perché magari in campagna avevano raccolto una penna o qualche altra cosa che poi si è rivelata essere un esplosivo. Ecco questi ragazzi studiavano moltissimo e per un professore quella è la soddisfazione più grande perché magari pensi che, se studiano un po’, è anche merito tuo. Poi a Pozzomaggiore, come tu sai, sono stato il portiere della prima squadra di calcio. Nel calendario del 1949 c’è la fotografia della squadra. Ci sono anche io con le ginocchiere perché allora si giocava in campi di terra battuta.»
Beh, professore, però allora bisogna ricordare quelle sette reti incassate a Banari.
«Ahimè. Il primo tempo era finito 5 a 1 per noi. Nel secondo c’è stato il tracollo, ma a mia scusante posso dire che il campo di Banari era fortissimamente in discesa per cui quando uno tirava un rasoterra dalla sua metà campo il pallone finiva in alto sotto la traversa e io lì non ci arrivavo.»
Torniamo alla scuola. Ricorda il suo primo stipendio?
«A Pozzomaggiore mi pagavano con soldi e viveri perché eravamo ancora nel 1948. Il mio primo vero stipendio l’ho percepito a Ozieri, anche lì in una scuola privata, dove il preside, come si faceva nel mercato calcistico, mi disse: “Se viene a insegnare da noi, le dò lo stipendio che percepisce suo padre”, cosa che fece arrabbiare molto mio padre. “Come, – mi disse scandalizzato -, io insegno da quarant’anni e tu percepisci il mio stesso stipendio!”»
Ma è vera la storia, come dice qualcuno, che lei abbia guadagnato qualcosa anche da ragazzo, accompagnando soldati tedeschi durante la guerra?
«Sì, già nel 1943, io avevo studiato per conto mio il tedesco perché eravamo alleati. Io ero balilla come occorreva essere allora, come capitava a tutti. A Santa Teresa c’era una batteria contraerea il cui ufficiale in qualche misura dipendeva da mio padre che comandava un battaglione che aveva competenza su un territorio che si estendeva da punta Marmorata fino alla Rena Bianca di Santa Teresa. Io lo accompagnavo come interprete a fare la spesa e devo dire che mi pagavano bene.»
Di Manlio Brigaglia si dice: è un grande intellettuale, un grande storico, è stato un grande insegnante, pure giornalista…
«Sì, adesso sono solo grande. E basta!»
Parliamo del giornalista. Come ha cominciato?
«Ho cominciato il primo gennaio del 1950 quando sono stato assunto a “La Gazzetta Sarda” che era il giornale del lunedì. La cosa straordinaria è che siccome proprio in quel giorno il giornale veniva preso in affitto da Giovanni Sebastiano Pani, l’uomo del Granturismo, io ho cominciato a scrivere e a essere pagato senza fare quella lunga trafila che fanno tanti giovani oggi senza avere la speranza di passare il Rubicone.»
Lei ha collaborato a lungo anche con “L’Unione Sarda”, poi ha interrotto perché?
«Sì, …sono stato corrispondente dell’“Unione” da Sassari in un momento in cui il giornale voleva sfondare a Sassari, fare la concorrenza a “La Nuova”. Sono stato corrispondente per un anno dal 1955 al 1956, poi fui mandato via di colpo. Io scrissi al giornale una lettera dove non annunciavo nessun ricorso al pretore del lavoro ma anzi ringraziavo il direttore per avermi consentito di guadagnare i soldi di cui avevo bisogno per sposarmi. Allora, in risposta, mi hanno offerto la collaborazione che ho mantenuto fino al 1994, quando c’è stato il colpo di mano dell’editore Grauso che, seguendo la vittoria di Berlusconi, ha modificato tutti gli assetti e decapitato i vertici. A quel punto, io ed altri amici, tra i quali Guido Melis, abbiamo interrotto qualunque rapporto e poi ho cominciato la mia collaborazione con “La Nuova”.»
Come giornalista non può dimenticare la sua lunga collaborazione con la RAI.
«È cominciata nel 1959 e ancora continua. C’era allora un grande direttore che era Giangiorgio Gardelin che aveva pensato di allargare gli spazi di trasmissione e fece fare a me e ad Antonello Satta una serie di documentari radiofonici e noi girammo l’Isola con il Nagra, che era un registratore preziosissimo. Io ricordo un documentario sulle lumache, girato a Sassari, con cercatori e gastronomi. Fu un trionfo della gioga.»
Il giornale cartaceo o la Radio, quale strumento le ha dato maggiore notorietà?
«Ti racconto un episodio curioso. Mi trovavo in ospedale per un piccolo intervento al naso quando entrò nella mia stanza un infermiere che mi fece una serie di domande: “Perché è qui?” Chi l’ha operata, il dottor…?” “No il prof…” “E chi era l’anestesista, il dottor…?” “No, il prof…” “Caspita, ma lei chi è?” aggiunse incredulo controllando la mia cartella. “Ah, ora ho capito, lei è a cura di Manlio Brigaglia”, disse meravigliato ricordando il titolo di una mia trasmissione. La radio la sentivano in tanti.»
Lei da storico ha una sterminata produzione scientifica, quanti libri ha scritto?
«Non me lo ricordo.»
A quale è più affezionato?
«Sai che è difficile. Però se devo scegliere penso a quelli su Emilio Lussu al quale ho dedicato quattro libri. Sì, Lussu, è il personaggio a cui sono più affezionato.»
Qual è lo stato di salute della Letteratura sarda?
«In grande fioritura, è sempre primavera. Si produce molto.»
Perché i grandi narratori pensano ancora a dipingere la Sardegna come Isola scrigno, con il suo passato carico di nostalgia. Sembra che non si voglia guardare al presente, figuriamoci al futuro…
«Perché è quella di cui si sente più nostalgia, e per tanti si tratta di recuperare un passato che non si è conosciuto ma che gli autori di mezza età – compresi alcuni più giovani come Marcello Fois – hanno fatto in tempo a conoscere e che dava l’impressione di un’Isola più seria e ben strutturata anche se con fratture evidenti dentro i paesi o nelle città. Tuttavia in alcuni autori emerge il tentativo di cancellare del tutto quella tradizione, chiamiamola così, deleddista. Certamente Sergio Atzeni è stato uno scrittore capace di guardare al presente, e per una Sardegna tutta contemporanea farei i nomi di Giulio Angioni e di Flavio Soriga.»
Dal punto di vista storico qual è, secondo lei, il periodo più bello che ha attraversato la Sardegna? Lilliu parla del periodo nuragico quando i Sardi erano veramente liberi.
«Il periodo medievale, quello che conosciamo di meno. Eppure è un’età di grandi cambiamenti, più intensi di quanto noi stessi possiamo immaginare, con l’organizzazione dei giudicati, la costruzione delle grandi abbazie, poi non dimentichiamo alcuni personaggi straordinari a cominciare dalla giudicessa Eleonora. A questo proposito, c’è una battuta di Giuseppe Dessì secondo il quale la Sardegna ha avuto due grandi uomini: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda.»
Se noi conosciamo così poco la Sardegna non è che gli storici hanno sbagliato qualcosa?
«No, non hanno sbagliato gli storici. Ha sbagliato la politica dell’Istruzione. C’è nello Statuto regionale un articolo in base al quale la Sardegna può intervenire per adeguare i programmi alle esigenze dell’Isola, beh la storia sarda non è mai stata insegnata se non da professori sardi sardisti i quali amavano la Sardegna e pensavano che i loro studenti dovessero conoscerla.»
Torniamo ai suoi libri, tra quelli più importanti c’è sicuramente “Sardegna perché banditi”, scritto per la commissione parlamentare d’inchiesta che doveva studiare il fenomeno del banditismo.
«Sì, fu scritto perché chi si occupava del tema, dai politici ai giornalisti, avesse una sorta di prontuario…»
Ecco, una delle risposte di quella commissione fu la nascita in Sardegna della grande industria. L’industria è in crisi e il malessere è rimasto. Dove ha sbagliato la politica?
«Beh, lì sbagliò non tanto nella scelta dell’industria, che poteva garantire una spinta di forte cambiamento. Lì stava la teoria economica del momento e non era del tutto errata. Ha sbagliato quando ha consentito che la grande industria fosse tutta nelle mani di un solo uomo, Nino Rovelli, che ha inquinato tutto, e non solo il mare.»
A proposito di politica. Lei è considerato un cattolico che guarda a sinistra. Attento ai temi sociali, grande amico di Paolo Dettori. Che ricordo ha?
«Amico e cugino, studiavamo assieme da ragazzi. Scherzando qualche volta dico che gli scrivevo i discorsi. Succedeva così. Paolo mi chiamava: vieni che dobbiamo scrivere, mi diceva, e io sapevo come sarebbe andata a finire. Lui dettava e io scrivevo a macchina.
A quel periodo risale l’amicizia con Pietrino Soddu, che ancora continua.
«Quell’amicizia la devo a Pino Careddu che faceva “Il Democratico”, il giornale dei giovani turchi, il movimento nato all’interno della Democrazia Cristiana. Ad un certo punto il giornale fece un’inchiesta polemica sull’ospedale di cui era presidente proprio un giovane turco. Ci fu una discussione piuttosto accesa e alla fine Pino Careddu andò via, lasciando il giornale – come dicono a Sassari – con cinque pagine fatte e tre no. Mi chiamarono in aiuto e lì conobbi Pietrino Soddu che era amministratore del giornale.»
Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira, due intellettuali che non ci sono più.
«Hanno fatto molto per la Sardegna. Pigliaru ha studiato come pochi la società barbaricina offrendo un contributo prezioso per capire meglio la società non per giustificarla, beninteso. Anche Pira ha avuto grandi meriti perché ha ugualmente studiato la Sardegna interna dando un contributo per la sua conoscenza.»
Tra gli intellettuali di oggi chi può essere seguito con maggiore attenzione?
«Almeno due li citerei, uno è il grande padre di tutti noi, Giovanni Lilliu, che è stato mio professore, anche se di geografia, poi Antonio Romagnino.»
Torniamo al professor Brigaglia, storico. Lei ha diretto il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari.
«Sono stato il fondatore del Dipartimento, allora era una struttura inedita e funse da modello incoraggiando le altre facoltà a dotarsi di una nuova organizzazione. C’erano con me Guido Melis, Antonello Mattone, Piero Sanna.»
Lei ha una biblioteca ricchissima, a quale libro è più affezionato?
«Ad un testo di Braudel sulla civiltà del Mediterraneo, un libro di mille pagine che ti fa capire come si fa la storia. Paolo Dettori lo conosceva a memoria.»
La rivalità tra Cagliari e Sassari è antichissima, ma ha ancora un senso?
«No. Io racconto sempre un aneddoto, quello del signore che va dallo psicanalista per farsi curare un complesso di inferiorità. Alla fine il medico gli dice: guardi, lei non ha nessun complesso, lei è veramente inferiore. Noi, oggi, siamo cosi rispetto a Cagliari.»
La forza dei suoi interventi scritti è nella semplicità, quando ha portato a compimento il suo stile che è inconfondibile nel mondo della comunicazione?
«Al Liceo, in Italiano, ero bravino, però non quanto nelle altre materie. Alla maturità ci venne dato un compito che diceva così “Roma è stata finalmente liberata, dite quali elementi suscita in voi questo grande evento”. Io avevo fatto un compito antifascista e presi un ottimo voto. Ma capii che dovevo migliorare ancora e durante la guerra, non potendo andare a Cagliari, stavo ad Arzachena da nonna dove ho passato un periodo lunghissimo a tradurre dal Latino facendo uno straordinario esercizio di scrittura. Ecco, scrivendo in continuazione ho migliorato tanto la qualità della mia scrittura.»
Le va di parlare di sua moglie. Lei ha un amore tenerissimo per la compagna della sua vita.
«È vero. Ci siamo conosciuti quando lei era in seconda Liceo. Io ero ragazzo in professione. Da allora siamo stati sempre insieme, due anni fa abbiamo festeggiato le nozze d’oro.»
Non avete fatto figli, ma siete stati educatori di tantissimi studenti.
«Io dico sempre, ma naturalmente è una battuta, e i nostri ascoltatori capiranno il senso. Dico sempre che se prendi tre sassaresi a caso: uno è stato mio alunno, uno di mia moglie, l’altro si vede dalla faccia che ha perso una grande occasione. È vero, non abbiamo avuto figli, ma tutte le mattine per molti anni ne abbiamo avuto cento ciascuno.»
Quali sono gli allievi che non può dimenticare?
«Beh, in realtà tutti quelli che riesco a ricordare perché poi l’età molti ne cancella. Sapendo di far torto a molti altri, ne cito cinque: Guido Melis, che è stato mio alunno, mio collega, oggi anche mio rappresentante in Parlamento insieme a tanti altri sardi; Antonello Mattone, che adesso è direttore del Dipartimento di Storia, e Piero Sanna: loro sono stati miei alunni quasi contemporaneamente; e poi Luigi Manconi, che da Sassari è partito per volare più in alto; e Paolo Pulina, un mio alunno di Ploaghe, che adesso a Pavia è funzionario della Biblioteca Provinciale, col quale ci sentiamo non dico tutti i giorni ma poco ci manca, che cura il Circolo dei sardi ed è il responsabile culturale della F.A.S.I. (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia).»
Fra i tanti riconoscimenti che lei ha avuto per la sua lunga carriera di insegnante, c’è quello di Benemerito per la Cultura. Che senso ha per lei questo premio, che ha ricevuto dal Presidente Ciampi?
«Beh, è un premio che non è così raro come sembra dato il suo titolo. Naturalmente fa sempre piacere ricevere un riconoscimento come questo. Devo dire che mi è stato conferito su proposta del Senato Accademico dell’Università di Sassari, era il coronamento di una carriera che è stata anche breve perché ho incominciato a insegnare all’Università solo verso il 1970-1971.»
Ognuno di noi lascia una traccia del suo passaggio. Come le piacerebbe essere ricordato?
«Come una persona perbene, che quando c’era da impegnarsi non è scappata. No, non mi sono mai tirato indietro.»
Tonino Oppes
Nato a Pozzomaggiore, SS, è laureato in Scienze Politiche, all’Università di Sassari. È stato giornalista Rai dal 1977 al 2013. A lungo conduttore del telegiornale, ha ricoperto – per quasi tredici anni – l’incarico di capo redattore della sede regionale di Cagliari, occupandosi, tra l’altro, della rubrica settimanale “Lèggere” dedicata ad autori sardi. Ha scritto numerosi libri. Alcuni li ha dedicati ai temi dell’ambiente, altri alla Narrativa per ragazzi. Tra le sue opere più recenti: “Il ballo con le janas”, “La voce del leccio” (Edizioni Domus de Janas) e “Leggende sarde al chiaro di luna” (Condaghes).