Quattrocento detenuti tra i 500 ospiti della Casa circondariale di Bancali fanno uso di psicofarmaci. È soltanto uno dei dati drammatici emersi ieri nel corso del convegno “Tutela della salute negli istituti penitenziari del Nord Sardegna: peculiarità e criticità”, all’Aula udienze penali della Corte d’Appello di Sassari.
«Il diritto alla salute per i detenuti è stato più volte posto dal legislatore nazionale. In particolare, già la legge n. 230/1999 stabiliva che i detenuti dovessero avere in materia di salute gli stessi diritti dei cittadini in stato di libertà, e questo principio è ribadito nei successivi provvedimenti con cui si è disposto che l’assistenza sanitaria passasse dal ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale – ha detto Giommaria Cuccuru, presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari, in apertura di lavori -. In materia, la norma cardine è costituita dall’art. 11 dell’ordinamento penitenziario, riformulato nel 2018, che prevede che il Ssn deve operare all’interno degli istituti di pena, e ha poi statuito con norma imperativa che il Ssn “garantisce ad ogni istituto un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati. Questa previsione, a mio avviso, può anche essere interpretata nel senso che il Ssn deve approntare per i detenuti strutture idonee a soddisfare il loro specifico bisogno di salute; dunque, occorre che queste strutture siano funzionali e parametrate alle esigenze di quella particolare tipologia di utenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti provengono da strati sociali marginali, si portano dietro malattie trascurate nel tempo, non dispongono di risorse materiali per ricorrere all’assistenza privata e spesso neppure di un valido supporto familiare. Conseguentemente, necessitano di maggiori cure e attenzioni da parte del SSN rispetto ai pazienti in stato di libertà, a parità di stato morboso. Senza considerare, poi, che vivere una condizione di malattia in ambiente carcerario, con le connesse ristrettezze di spazi, in assenza di riservatezza e con convivenza obbligata con persone talvolta non gradite, aumenta il disagio, la solitudine e lo sconforto derivante dalla malattia. Questa peculiare condizione dei detenuti apre la strada al superamento del “neutrale” principio della parità di trattamento, dal punto di vista sanitario, tra persone detenute e in stato di libertà: una volta appurato che le esigenze sanitarie dei detenuti si inseriscono in una oggettiva condizione di sfavore, non può che derivarne la conclusione che occorre fare di più per sopperire a tali esigenze, senza che questo possa costituire una irragionevole sperequazione a loro favore. Dunque, dal punto di vista giuridico vi è spazio per ritenere che la tutela della salute dei detenuti possa essere caratterizzata da misure specifiche e sostanzialmente di vantaggio rispetto a quelle in essere per i cittadini in stato di libertà.»
Il focus, che riguardava in particolare le realtà del Centro-nord Sardegna (Sassari, Alghero, Tempio Pausania, Nuoro e Mamone), in realtà ha mostrato un quadro che è analogo anche nel resto dell’Isola.
«La detenzione è in crescita, in Italia e in tutto il mondo, anche a causa delle norme più restrittive introdotte negli ultimi anni e del dilagare del mercato delle droghe – ha ricordato Sandro Libianchi, promotore dell’iniziativa, medico e presidente di Co.N.OS.C.I. – aps, il Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane -. Da uno a due terzi delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate all’uso di sostanze stupefacenti. La maggior parte dei detenuti è di sesso maschile (94%) ma negli ultimi vent’anni il numero delle donne in carcere è cresciuto in maniera più evidente (+35%) rispetto agli uomini (+16%). I detenuti fanno parte della nostra comunità: proteggerli, in chiave di reinserimento sociale, significa anche proteggere noi stessi. Ecco perché è fondamentale aiutarli a recuperare e a non cadere nella recidiva. In Italia oggi contiamo circa 62mila detenuti (2.224 in Sardegna, dove si registra un indice di sovraffollamento del 97,70%: siamo arrivati, cioè, quasi ai limiti della capienza), ma i posti disponibili sono 47.300: ecco perché le risorse messe a disposizione dallo Stato sono insufficienti. Il finanziamento in materia sanitaria in Italia è pari a circa 227 milioni di euro, alla Sardegna spettano poco meno di sette milioni di euro, in buona parte per la medicina penitenziaria e per il riordino delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure Alternative (R.E.M.S.). Le leggi vigenti talvolta sono obsolete, ma comunque restano in vigore: la legge n. 354 del 1975 prevede che per ogni istituto di pena vi sia almeno uno specialista in psichiatria, ma non tutte le strutture penitenziarie rispettano questa disposizione. Il carcere è un contesto particolare, nel quale le leggi in materia sanitaria vengono raramente applicate in maniera completa e come prevedono le norme. In particolare, ci si riferisce all’accordo sottoscritto in Conferenza Unificata del 22 gennaio 2015 (Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lett. c) del D. Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, sul documento «Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti; implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali». È evidente che la detenzione, di per sé, determina condizioni di vita completamente diverse da quelle delle persone in libertà. Ma non è possibile continuare ad assistere ad alcuni fenomeni peraltro molto frequenti, quali ad esempio la conversione di problemi non sanitari in problemi sanitari, per esempio quando un detenuto “dà di matto” (come si suol dire in gergo) e il personale penitenziario chiede l’intervento terapeutico di un medico per placarlo. Noi, però, sappiamo bene che quelle reazioni sono il più delle volte legate alle condizioni di vita in queste strutture di pena o a lamentate prepotenze del sistema. Infine, problema non secondario, la maggiore presenza di stranieri rispetto al passato: oggi siamo arrivati a un valore nazionale di 19.507 presenze, pari a circa il 32%.»