Selargius è l’ottava città più popolosa della Sardegna. Oggi ha quasi trentamila abitanti, cinquant’anni fa erano meno della metà. «Siamo vicini alla città, in un’area di espansione urbanistica», spiega Marco Maxia. Ha 48 anni, da venticinque coltiva capperi ed è il referente dei produttori del Presidio Slow Food del cappero di Selargius, dove ha deciso di tornare a vivere dopo un periodo a Londra. «Perché sono rientrato? Il mal di Sardegna, la mancanza del mare», dice, a metà tra l’ironico e il serio.
Rientrato sull’isola, si è guardato attorno cercando l’idea giusta: «In campagna, senza soldi e senza terreno, è difficile iniziare da zero – ammette – ancor di più se si è vicini alla città. Qua i terreni costano tanto: non per ciò che vi si può coltivare, ma per quanto si può costruire». Un giorno di agosto, girando per le campagne di Selargius aride e secche per il gran caldo, l’occhio suo e di Emanuela, la ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie, è caduto su alcuni cespugli «verdissimi, pimpanti, pieni di fiori benché palesemente abbandonati». Incuriosito, ha cominciato a cercare informazioni tra gli anziani del posto su quelle piante che altrove non si trovavano: erano capperi di una varietà tradizionale, molto diffusa e utilizzata in passato e coltivata spesso insieme alla vite e all’olivo.
Quella di Selargius è una pianta di capperi molto particolare: «A differenza della gran parte delle altre piante di cappero conosciute che sono striscianti, la nostra è un alberello, cioè ha un portamento eretto. Negli esemplari di ottanta o cent’anni raggiunge il metro e mezzo d’altezza», spiega Marco. L’altra particolarità del cappero di Selargius riguarda i boccioli, cioè i capperi veri e propri: sono più piccoli, più “vuoti” e hanno quindi un peso specifico notevolmente inferiore agli altri, di circa un terzo. «Negli anni ‘80, quando sul mercato cominciarono ad affacciarsi i capperi nordafricani più grandi, questa caratteristica venne considerata un difetto: per raccogliere un chilo di capperi nostrani ci volevano quasi duemila boccioli, rispetto agli ottocento di altre varietà. Così le piante vennero abbandonate». Oltretutto, la raccolta del cappero è faticosa: va fatta il mattino presto o a sera, per proteggersi dai raggi del sole, e a volte addirittura al chiaro di luna, approfittando del fatto che la notte i capperi sono più sodi.
Il fatto che siano pressoché vuoti ne rende più immediato l’utilizzo in cucina: il risciacquo dal sale utilizzato per la conservazione è rapido, non serve un lungo ammollo e i capperi ne guadagnano in sapore. Oggi Marco ha circa seicento piante, tutte di recupero e sparpagliate in micro appezzamenti, molti dei quali presi in gestione o in affitto: «Il cappero è orgoglioso e testardo, è sopravvissuto a venti o trent’anni di abbandono. È lui che ha trovato noi, non viceversa». Lavora mosso dalla convinzione che «far rivivere la campagna è necessario, altrimenti i terreni incolti diventano più facilmente preda della speculazione. La parola presidio ci sta proprio bene – conclude – anche perché un terreno ben lavorato protegge dagli incendi». Oltre a Marco, il nuovo Presidio Slow Food conta sull’impegno di un altro produttore, Enrico Dentoni; con il tempo, l’auspicio è che altri proprietari di piante ricomincino a prendersi cura dei capperi di famiglia e aderiscano al Presidio.
«D’altronde – conclude Fabrizio Mascia di Slow Food Cagliari, referente Slow Food del Presidio – un tempo avere qualche cespuglio di capperi, nel vigneto o tra gli ulivi, era la normalità: se all’inizio dell’Ottocento della pianta si conoscevano gli usi medicamentosi, ben presto si sono scoperte anche le potenzialità in cucina. Guai a perderle un’altra volta! Come Slow Food Cagliari ci siamo attivati per avviare il Presidio, convinti che sia importante adoperarsi in prima persona per conservare la biodiversità del nostro territorio. Aiutare i coltivatori di cappero di Selargius vuol dire conservare una cultura, la bellezza di un paesaggio agrario unico, supportare un’agricoltura sostenibile anche contro tutte le speculazioni sul territorio agricolo.»