Prendo spunto dall’articolo dell’on. Massimo Zedda, relativo alla proposta di un progetto sardo per unire le sinistre, per fare alcune personali considerazioni politiche.
La prima è che Zedda, sembra tenere la barra della politica al passato. Un raggruppamento, un Rassemblement di coalizione cosi allargata alla cosiddetta sinistra «che nasca in Sardegna ma con punti di riferimento nazionali e internazionale» , fa pensare che lo sguardo sia volto al 1996 con l’Ulivo di Prodi. Poi l’Unione con Bersani, insomma un progetto di unità aggregativa e di cooptazione nella cosiddetta sinistra perché il PD, ormai è chiaro, da solo non riesce a intercettare la maggioranza politica. Un progetto il cui fallimento è evidente dalla avanzata del centro dx sardista con la Lega che, dopo aver oltrepassato il Po, anche in Sardegna ha conquistato grande consenso elettorale. Con un P.S.d’Az che, nell’anno del centenario è a capo del governo regionale e risveglia assopiti sentimenti identitari e rivoluzionari ereditati dagli ex combattenti, che con il suo Segretario Nazionale Christian Solinas, si fa promotore di una politica azionista che attrae trasversalmente l’opinione pubblica, dai più giovani e inesperti agli habitué dei salotti della politica. E se ciò è avvenuto una ragione ci sarà pure. Nel ragionamento unitario del “tutto a sinistra” si creano barricate, steccati, non ci si pone il nodo politico essenziale della Sardegna di cui tutti noi siamo figli/e. Questa politica, copia conforme di quella romana, è finalizzata al progresso e sviluppo dell’Isola? A cosa è servita la politica in Sardegna? Posso dire che il rapporto tra elaborazione di idee e cultura ha subito un graduale divorzio. Da questo rapporto i partiti avevano potuto generare appartenenza e identità collettiva, una funzione a largo insediamento sociale. Oggi tale rapporto si è quasi dissolto, fa parte del passato e la politica è in difficoltà. I partiti sono deboli rispetto ai poteri sociali, hanno meno capacità di regolare i processi. Infatti gli esecutivi nobili esercitano la loro autorità entro i confini, mentre i poteri sociali sono presenti dappertutto e attraversano i confini e i confini vengono attraversati dalla povertà e dall’enorme ricchezza. Insomma, la politica oggi dovendo rispondere del suo operato agli elettori in pubblico e allo stesso tempo rispondere a Strasburgo, a Bruxelles, genera enormi disuguaglianze sulla disuguaglianza politica. Si va verso élites politiche deboli e autoreferenziali che tendono ad avere come scopo principale la propria permanenza. Non siamo messi bene, perché abbiamo trascurato e minimizzato il problema di fondo, il convitato di pietra che ciascun sardo borbotta dopo aver sentito di vecchia stantia politica regionale: Quando saremo finalmente liberi?
Il problema di fondo non è l’autonomia, né l’indipendenza, il problema vero è la Libertà dell’Autodeterminazione che non ci sarà finché la Sardegna avrà il peso del Titolo V della Costituzione. Dunque, mentre si propone un confine elettorale senza spaziare per un progetto di largo respiro, dobbiamo avere il coraggio di pensare di progettare un futuro insieme ad altre Regioni Europee. Pensare alle elezioni di domani, infatti, senza individuare il dopodomani, significa non avere la progettualità idonea a traghettare la cittadinanza verso altre prospettive.
La sinistra di oggi, vecchia malgrado i giovani volenterosi come Zedda, ma privi di originalità propositiva, è pienamente inscritta nel profilo costituzionale e aderente a due termini assoluti della nostra Costituzione: Stato-Nazione ed Europa e ogni tanto, quando si profilano le elezioni, mettere un condimento di termini “autonomistici o federalistici”. Ciò sembra irridere l’elettorato e quasi denota una scarsa consapevolezza del problema. Prendiamo a prestito una metafora del Buon Padre di Famiglia, al quale ciascuno dei 20 Figli, uno per Regione, chiede la paghetta (trasferimenti fiscali) per la vita di ogni giorno. Ma uno, solo uno di essi, contesta il Padre (Stato) e chiede piena libertà di movimento finanziario, autonomia gestione delle sue risorse, incontestabilità. Il Padre, per amore di unità, lo lascia dire sapendo che il figlio non andrà mai via di casa.
Per assumersi l’onore di portare innanzi la bandiera federalista occorre la decisionalità dei visionari, la forza dei rivoluzionari e la costanza dei caparbi isolani. Si esca, dunque, dalle contraddizioni della Costituzione prima di parlare di federalismo.
Dov’è la trappola? Ne ho parlato nel mio Volume “Dall’Indipendenza all’interdipendenza” in cui si fa notare la trappola costituzionale del Titolo V, specificamente artt. 116 e 117, con la ripartizione della competenze di concorrenza legislativa.
Il vincolo che la Costituzione impone alla Regioni, ancorché dotate di autonomia speciale come nel caso della Sardegna, è quello di legiferare nella materia concorrente, elencata nel punto “s” della comma 3 dell’art.117. Insomma dice il Padre: vai dove vuoi, frequenta chi vuoi ma alle 22 tutti a casa per la cena. Legiferare, dunque, nel pieno delle Autonomie senza rinunciare ai trasferimenti fiscali, dover rimandare la Zona franca, e lasciare gattopardescamente tutto com’è. Vincoli legislativi a parte, per poter sbandierare piena autonomia, financo Federalismo, declinato poi nel peggior modo possibile, ossia quello del «lo dico ma non lo faccio», è semplicemente ipocrisia.
La mia visione, che potrebbe sembrare follia, è quella di una Nuova costituzione Regionale Europea che ancora non c’è, partecipare a scriverla e stracciare quella vecchia ormai superata, è il mio nuovo obiettivo. Non più l’Italia bensì l’Europa deve essere interpretata in modo nuovo. Con un Federalismo Regionale Europeo dove portare, assieme ad altre regioni, le nostre giuste istanze.
Il tramonto dello Stato è ormai di fatto sanzionato dalla globalizzazione. Con l’avvento del G-Local ossia della partecipazione globale dei territori ci siamo già avviati su questa strada che verrà quando verrà ma verrà. E allora ne vedrete delle belle perché è tutta roba da scrivere come lo fu per la Resistenza.